L’immagine-odio: lo spettatore perduto sul suo trono di spade

L’altra sera a far zapping, ancora una volta, gli Occhi si son sentiti sempre più sdegnati e levigati, come se rivoli di immagini avessero corso per millenni in un torrente che ha tolto identità al suo letto.
Vi era un tempo l’immagine e tutto quello che comportava, insieme di piccole possibilità, sorrisi amarognoli e dolci maledizioni. L’immagine, luogo di distanza/vicinanza da un presupposto fondamento, è ora sempre più un concetto inevaso. Ma non sarà la generale assenza d’interrogazione a sedarne le capacità d’azione nelle nostre oscure profondità personali.
Anzi. L’immagine di fatto è ora incontrollabile, scissa, spesso cattiva.

Un tempo, al tempo dei corsi, dei monografici e degli esami universitari, ciò che mi coinvolse cavalcava le specifiche esperienze sensoriali. E ricercavo in particolare sulla capacità delle immagini di produrre un “microtrauma” (Pezzella, Bernardi e altri), cosa che poteva esser considerata valida per qualsiasi esperienza sensoriale.
Per capirci, l’immagine sarebbe prima di tutto il luogo di produzione (interiorizzazione) e di fruizione (esteriorizzazione) di un “microtrauma” la cui fenomenologia sia riconducibile alle fattezze dell’immagine stessa.
Nel caso di suoni, odori e entità meno descrivibili e definite resta comunque valida l’idea di un trauma e quindi di una loro impronta immaginale.

Così attraverso questi microtraumi l’artista poteva, specie con gli strumenti del video o dei software d’elaborazione sonora, creare una traumo-trama speciale e scolpire lentamente l’anima del fruitore. Ecco che andando avanti si scoprì piccole e grandi cose: ciò che metaforicamente chiamiamo impronta, alludendo ad un’idea di vuoto o mancanza, si svelò al contrario come un’eccessiva dedicazione di energie a momenti (immagini) precisi. Queste restavano in qualche modo impigliate nella rete dell’immagine, con la possibilità sofisticata di formattare, nel lavoro e nella fruizione, l’umore di chi aveva a che fare con l’opera.
Oggi mi chiedo, dopo la deforestazione cognitiva che abbiamo attraversato e stiamo attraversando, che cosa resta di quella possibilità. Abituati a tutto o quasi, la nostra sensibilità si è come spanata e il microtrauma si perde nel delirio dei supertraumi, ormai vissuti come normalità da uno spettatore che, certe volte, è come una puttana definitivamente slabbrata.

Per molti motivi e per amor dei miei Occhi, evito di guardare, ad esempio, film e-o serie tv come il Trono di Spade, dove si colpisce ciclicamente lo spettatore con soluzioni supertraumatiche annientando la corposità dell’anima. Qui l’immagine protagonista è l’immagine-odio, che aggiungerei alle tipologie tanto care agli studenti ed ai loro vati (Deleuze).
Seduto sul suo trono con le spade sisifamente conficcate nel petto, lo spettatore non ha più niente da offrire all’artista: la sua anima non è più creta e tanto meno marmo, ma liquame inconsistente che puoi solo rimestare, rimestare, rimestare. È completamente entropizzata.
E gli Occhi, innanzi a questo delirio, divengono trasparenti, si ritraggono in sé stessi. L’intelligenza biologica e il suo erotismo peculiare, si chiudono in sé stessi, nel cosmo oscuro che si sta affermando e che inghiottirà i nostri rimasugli di innocenza.

Che fare, artista, se non accettare la propria morte e vivere di essa (Sisi). Ci si auguri di aver steso (quando ancora era possibile) dei bendaggi resistenti per la propria mummia e di essersi cosparsi con unguento capace di proteggere a lungo, almeno finché la nostra permanenza nel tempo sarà necessaria.
E per gli occhi, che sono soli, si cerchi il Canopo migliore e si segnino le ceramiche con simboli di protezione universali. Fosse solo per ironia (che almeno quella possa salvarci!).

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